”Perché non prendono la parola gli psicoanalisti, loro che potrebbero aiutare a far capire come queste fobie siano proiezioni di tensioni e crisi, di inquietudini profonde, di timori e fantasmi dell’animo?” (2000). È l’accorato grido di Toni Maraini. “La cultura, almeno in Italia, ha per decenni voltato le spalle al resto del mondo, o si è soddisfatta di luoghi comuni e al momento storico attuale è incapace di svolgere il proprio ruolo”, continua, accusando a buona ragione, l’Occidente di aver sfruttato le risorse dei paesi del Medio Oriente a discapito del loro sviluppo democratico.
Non potevo rimanere sorda e muta a questo accorato appello, al dolore che urla nel cuore.
Perché allora non ricorrere al sogno e all’allegoria in un tempo, il nostro, in cui dominano l’odio, la guerra, l’intolleranza? Il sogno non è forse uno dei linguaggi specifici di chi si occupa della cura delle anime?
Dice lo scrittore americano Paul Sanberg che “non avviene nulla se prima non si sogna” (1986) e lo psicoanalista inglese W.R. Bion che “l’atto di sognare crea l’inconscio e dunque la coscienza” (1962).
Il sogno di Omàr è il viaggio, attraverso l’illusione onirica, nelle speranze e nelle paure degli uomini che hanno perso la strada dei sogni.
Da circa un anno Omàr faceva un sogno ricorrente che lo attanagliava; solo alla fine della sua vita, Dio accolse le sue preghiere e mandò lui un sogno che risolvesse i suoi turbamenti. Omàr comprese così come il mezzo onirico potesse divenire per gli uomini quella luce che rischiara e invera le esistenze di chi ha perso la coscienza. Di questa verità Omàr si farà messaggero tra gli uomini che riceveranno i sogni che li illumineranno. I racconti sono collegati tra di loro dalla riflessione sul conflitto israelo-palestinese mediante l’osservazione partecipata di singole situazioni private.
Dalla manipolazione e dalla disperazione a cui è costretto l’uomo nelle culture aggressive e teocratiche, al ripudio della propria moglie, all’impossibilità di amore e di amicizia tra etnie diverse, alla violenza imposta alla donna dai costumi e dalla cecità di alcune tradizioni.
In ultima analisi, il racconto “La cultura della speranza” è una postilla di denuncia per chi ha calpestato, e continua a calpestarla, in nome di presunti principi che offendono il valore dell’uomo.