Le canzoni dei Queen. Commento e traduzione dei testi

Christian Diemoz

Le canzoni dei Queen. Commento e traduzione dei testi

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    Nota: la copertina presenta segni del tempo o difetti minimi. Interni integri.

    Questo libro scava nelle pieghe dei loro testi, alla ricerca di interpretazioni e significati per i brani che, nell'arco di quasi vent'anni, hanno permesso al quartetto inglese di resistere al passare delle mode. Lo stile lirico dei Queen evolve dall'epicità degli esordi all'immediatezza dei lavori pubblicati negli anni Ottana, per abbracciare infine, nel periodo in cui Freddie Mercury intraprende la lotta contro il virus dell'HIV, una lucida caratterizzazione autobiografica. E' un percorso affascinante, costellato da successi tributati da legioni di fan pronti a intonare, ogni volta come se fosse la prima, God save the Queen.


    INTRODUZIONE

    Il quartetto composto da Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon, per tutti gli anni in cui è stato musicalmente fecondo, ha costituito il miglior bersaglio mobile della stampa di settore (soprattutto quella britannica, a conferma dell'antico adagio "nemo propheta in patria"). Salvo qualche rara eccezione, i giudizi sugli album dell'Armata regale sono sempre stati caratterizzati dal leit-motiv "l'ennesima prova superflua di un gruppo di cui ci dimenticheremo presto". Al di là del fatto che questo genere di accoglienza si sia ripetuto per quasi due decenni (almeno una volta all'anno), neanche la tragica scomparsa del frontman ha placato questo accanimento. Ancor oggi, infatti, molti redattori rispondono alle lettere dei fan desiderosi di maggior considerazione per la loro band del cuore con commenti del tipo: "continuate pure a magnificarli, ma restiamo dell'idea che la storia della musica contemporanea sia cambiata ben poco grazie a loro".

    E' un dato di fatto: i Queen non piacciono (e non sono mai piaciuti) a chi scrive di musica. Un sentimento inversamente proporzionale all'amore tributatogli dal pubblico. Con il loro ripetuto infrangere primati commerciali e con il loro caloroso benvenuto riservatogli ad ogni atterraggio in un Paese ove non si erano ancora esibiti, i quattro rocker inglesi rappresentano il più celebre esempio di scollamento tra critica e opinione pubblica. Viene spontaneo, di fronte a un paradosso del genere, chiedersi dove abbiano sbagliato, di quale peccato capitale i nostri si siano macchiati per meritarsi tanta e tale acredine. La risposta, almeno quella suggerita dalle ricerche compiute per la realizzazione di questo libro, si cela nelle pieghe della loro quasi ventennale carriera. Ripercorrere le innumerevoli vicende artistiche di cui il quartetto è stato protagonista consente infatti di individuare un comun denominatore tra esse, rappresentato dalla capacità di Mercury e soci di condurre una vita scevra da pregiudizi e di adeguare la loro arte ai dettami del momento, mantenendo comunque un'impronta stilistica ben precisa.

    Qualche esempio? Partiti scrivendo sulla copertina del loro primo album "niente sintetizzatori", hanno poi abbandonato la linea dura dopo qualche anno, con le tastiere suonate addirittura da ognuno dei componenti del gruppo. Per non parlare poi del passaggio dalle atmosfere ruvide (che qualcuno ha definito alla Led Zeppelin) di Queen o Sheer Heart Attack, alla spensieratezza funky e dico di Hot Space. Cambiamenti che, se in qualche artista avrebbero creato quantomeno un briciolo di imbarazzo, sono sempre stati affrontati con estrema naturalezza dai Queen. I sintetizzatori prima oadiati e poi introdotti pesantemente? "Non bisogna avere paura di ricredersi", hanno dichiarato ai giornalisti che glielo hanno fatto notare. La dance? "Quell'album è nato a Monaco, dove frequentavamo una discoteca in cui furoreggiava quel genere. E' ovvio che ne siamo rimasti influenzati", è stata l'altrettanto candida risposta.

    Si sa, tutti coloro che vivono grazie ad una penna hanno bisogno di certezze. La musica (malauguratamente) è sempre più un fenomeno commerciale e trovare dei termini di paragone (leggasi dei gruppi a cui rapportare ciò che si sta recensendo) rappresenta un esercizio apparentemente necessario, oltre a rendere assolutamente più facile la vita a chi siede di fronte alla tastiera del pc. Ed ecco, con questa considerazione, messo a nudo il peccato originale dei Queen: aver reso maledettamente difficile (per non dire impossibile) questo compito. Proprio così, i quattro si sono permessi il lusso di mantenere un'identità definita, di non lasciarsi incasellare in uno stereotipo, in un pianeta dove il gioco più popolare è la corsa all'omogeneizzazione. Alzi la mano, in fondo, chi ha una definizione musicale che reputa calzante per il genere di Sua Maestà. Qualcuno dice glam? Troppo facile. Ammettendo che Queen e Queen II potessero anche esserlo, va riconosciuto che The Miracle e Innuendo stanno al glam esattamente come Ritchie Blackmore sta al reggae. Altri propendono per hard? No, grazie. Vogliamo forse parlare di quel singolo che ha furoreggiato sul mercato americano, intitolato Another One Bites The Dust? C'è poi chi dice pop? Va bene, ma siamo sicuri che gli arrangiamenti operistici di Bohemian Rhapsody c'entrino davvero? Si potrebbe continuare, ma la realtà è piuttosto chiara: i Queen hanno suonato per quasi vent'anni (e continuano a farlo grazie alle varie ristampe e compilation) la musica dei Queen.

    L'impressionante curva evolutiva del quartetto inglese non ha interessato solo lo stile, ma anche i testi dei brani. Partiti da matrici liriche permeate da un che di epico, hanno lavorato in seguito a una sostanziale semplificazione del loro linguaggio (palesata da brani come Keep Passing The Open Windows, Hammer To Fall o The Miracle), optando infine (soprattutto in vista di Innuendo, quando la band era già cosciente del rischio di una prematura scomparsa del suo leader) per una caratterizzazione autobiografica delle canzoni. Questo schematismo vale essenzialmente per il duo che ha contribuito al più elevato numero di composizione firmate Queen, cioè Freddie Mercury e Brian May. Va infatti osservato che, per quanto riguarda Roger Taylor e John Deaconm la scelta linguistica operata, sin dagli esordi, è stata quella incentrata sulla linearità e sulla semplicità dei testi. Probabilment si è trattato di un percorso intrapreso nella conspevolezza di essere meno dotati degli altri due compagni, dovendo quindi affinare la propria abilità compositiva, ma che ha dato i suoi frutti nel tempo. Gli album dei The Cross e singoli quali I Want To Break Free (frutto dell'estro del bassista) sono lì a testimoniarlo.

    Difficile poi individuare un unico fil rouge, contenutisticamente parlando, nei loro brani. Dallo spiritualismo, ai sentimenti nei confronti dell'altra metà del cielo, passandro attraverso la volontà di vivere in un mondo più equo e solidale, i Queen si sono pronunciati su una panoplia di soggetti. C'è comunque una lezione, di carattere più universale, che tutti siamo chiamati a trarre dal modo in cui il gruppo si è mosso sullo scacchiere artistico. Nella musica, ma anche nella vita, nulla è effettivamente impossibile. L'importante, nell'ordine, è: credere in ciò che si sta facendo, compiere le proprie scelte in buona fede, essere rispettosi di chi ci circonda e non prestare attenzione alle parole di chi si esprime per partito preso. Che l'Armata regale sia riuscita a dimostrarlo è oggettivamente fuor di dubbio e, nel contempo, rappresenta la miglior risposta per chi rimane convinto (e non si vergogna a scrivere) che Mercury, May, Taylor e Deacon non abbiano spostato di una virgola il corso dell'arte contemporanea musicale.


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